“Autonomia e relazione”
Luce e Amore Anno LXXII - N.2 Aprile/Giugno 2022
Pubblicazione trimestrale del Movimento Apostolico Ciechi
“Dalla fraternità vissuta in famiglia,
nasce la solidarietà nella società,
che non consiste solo nel dare ai
bisognosi, ma nell’essere responsabili
l’uno dell’altro. Se vediamo nell’altro
un fratello, nessuno può rimanere
escluso, nessuno può rimanere
separato.”
Papa Francesco
SOMMARIO
◼︎EDITORIALE
- Il ritorno all’età del mito
di Francesco Scelzo
◼︎LA PAROLA E LA VITA
- Fragilità e responsabilità nel mondo
di don Alfonso Giorgio
◼︎InFORMAZIONE e ...
- La grammatica della comunicazione per un dialogo autentico
di Fabio Zavattaro
- Il percorso sinodale avviato dal Papa: una Chiesa in cammino verso il futuro
di Salvatore Cernuzio
- In ascolto e in cammino insieme – qualche riflessione a margine della “Settimana Laudato si’ ”
di Andrea La Regina
◼︎SPECIALE Autonomie possibili
- Comunità di appartenenza e disabilità grave
di Domenico Vaccaro
- Le iniziative formative e le attività di Agenzia Pedagogica: il progetto Autonomie Possibili in sintesi
di Francesco Scelzo
- Il progetto Autonomie Possibili in Campania, Basilicata, Lazio e Puglia di Caterina De Luisi
- In Lombardia riprende il cammino con 10 famiglie, i professionisti e alcuni volontari
Antonio Pellizzaro
- L’A.N.Fa.Mi.V. e le iniziative progettuali in Veneto e Friuli
Edda Calligaris
- Famiglie, comunità e Agenzie Educative: i beneficiari delle attività progettuali in Sicilia
A.Amore, E.Pianeta, P.Speranza
- L’Agenzia Pedagogica per la Liguria e l’accompagnamento della famiglia
L. Arienti, D.Iula, L.Raspi, S.Manarolo
- Le iniziative progettuali in Toscana
di Antonella De Ruvo
- Arteterapia e musicoterapia negli interventi educativi in Emilia
di S. Bentivegna, L. Bonfiglioli, S. Presti, E .Spataro
- Stage residenziali, iniziative di grande significato nelle Marche
di Nella Rapaccini
◼︎PROMOZIONE SOCIALE IN ITALIA
- Il Santuario La Verna sempre più accogliente
di Luigi Vieri
- La lettera di una mamma
di Alessia Bramati
◼︎RACCONTI DAL TERRITORIO
La Prima Comunione di Stefano
di Caterina De Luisi
Buone prassi - l’esempio di una parrocchia bergamasca
di Margherita Merlini
Caltagirone
– inaugurata la nuova sede MAC
Lombardia
i gruppi MAC si incontrano a Bergamo
di Mariagrazia Seva
A Martano consegnato il premio Antonio Muñoz e a Susans il premio don Brugnani
di Angelo Liso e Giampaolo Bulligan
Reggio Emilia
incontro di spiritualità
di Lorenza Carra
Venezia
– il gruppo incontra il Patriarca
di Luigi Saccoman
Editoriale
di Francesco Scelzo
Il ritorno all’età del mito
L' uomo, benché chiamato alla libertà, benché costituito libero e forte, sperimenta nella sua concretezza storica la finitudine, la grave fragilità e, purtroppo, anche la guerra.
Sono questi temi profondi che investono il senso della vita e le ragioni dell’esistenza e, perciò, bisogna avvicinarli con prudenza e con attenzione. Il nostro tempo, tempo della chiacchiera e
tempo della comunicazione rapida e veloce, “social”, tratta anche questi temi spesso con superficialità, con velocità rischiando di banalizzare riflessioni complesse.
L’esperienza di una famiglia in cui vive una persona con pluriminorazione psicosensoriale, una persona con diverse disabilità (intellettiva, neuromotoria, sensoriale, di relazione) tutte combinate, è molto complessa e faticosa; ad essa è opportuno avvicinarsi con cautela e con attenzione ma, soprattutto, essendo in possesso di un bagaglio di competenza maturato con lo studio o con l’esperienza. L’esperienza di una guerra, ancor più se vissuta praticamente in diretta e quotidianamente, è per i popoli un’esperienza drammatica e non facilmente valutabile in termini di emozioni e di comunicazione rapida; anche questa meriterebbe un approccio approfondito e competente.
La guerra, come la grave fragilità, ci interpella sul senso profondo dell’esistere, è un richiamo forte alla nostra finitudine; ci ricordano che l’uomo è sospeso tra possibilità, sì, ma anche vincoli e limiti; è un forte e pesante interrogativo sulla libertà e sulla vocazione umana ad essere costruttore della propria storia, così come sul destino di ciascuno di noi, sulla morte e forse, spesso, anche sulla fine del mondo. Queste esperienze di sospensione tragica spingono l’uomo verso una visione di sé che appartiene a una età primordiale, l’età del mito. In questi mesi, in cui la guerra è nelle nostre case quotidianamente, si percepisce e si avverte un forte ritorno all’età del mito, così come accade a volte anche di fronte alla grave disabilità quando si cede a proposte “miracolistiche” o si ricorre a strategie “magiche”.
Di tutto il racconto della guerra, torna forte nella mia mente una immagine raccontata con dovizia di particolari: un uomo solo, con un cero rosso in mano acceso, dentro una maestosa costruzione come la Cattedrale di Mosca, durante la Celebrazione per eccellenza della Fede cristiana quale è il Mistero Pasquale.
Con velocità è stata commentata questa immagine come una immagine forte e contraddittoria; è una immagine che meritava, e merita, un approfondimento profondo e una meditazione lunga e attenta su chi è l’uomo.
È incomprensibile! Tuttavia, quando si vivono esperienze così forti come la malattia o la disabilità grave, come la guerra, l’uomo riscopre la propria dimensione di essere “religiosus”, dimensione che ci spinge a evocare sentimenti che spingono ad andare oltre; religioso è la condizione per cui l’uomo tende ad oltrepassare la propria esistenza. È questa la ragione per cui di fronte a una grave disabilità si interpellano maghi e santoni, a volte; è questa la ragione per cui i popoli in guerra, spesso, cedono a sentimenti “imperiali” o si rifugiano nella religione positiva, l’organizzazione visibile ed esteriore di una Fede. È necessario comprendere e valutare con riflessione gli atteggiamenti di autorità religiose o di capi di Stato che in occasione delle guerre manifestano fino all’ostentazione l’adesione a una fede, almeno nelle manifestazioni esteriori; si rischia di divenire, come ci richiama papa Francesco, “chierichetti dei governanti”, di asservire la propria fede a scopi diversi che appaiono espressione coerente di essa. È necessario essere prudenti e attenti nei confronti di chi, coinvolto in un conflitto, pur avendolo magari avviato, vorrebbe uscirne in forza di quella dimensione interiore che è la religiosità, la dimensione del tendere verso, del voler andare oltre. Emerge, in noi, l’uomo antico dell’età del mito, il tempo in cui l’uomo di fronte agli eventi naturali, di fronte ai nodi dell’esistenza ricorreva alla mitologia. In questo tempo, il livello della storia veniva assorbito nel livello della religiosità; vi era, per così dire, una commistione tra Dio o gli dei e gli uomini. Tutti abbiamo ben presente i classici della mitologia, come l’Iliade e l’Odissea; a tutti noi potrebbero venire in mente Achille, Ettore, Ulisse, uomini misteriosamente collegati agli dei. A tutti noi verranno certamente in mente chi nella storia ha incarnato questo ritorno al mito, come Alessandro Magno, Cesare, Napoleone, Garibaldi, Che Guevara. Tutte queste personalità, forti, sono circondate da un alone misterioso, come investiti di una missione religiosa. Non sfuggono a questa “missione religiosa” anche i governanti protagonisti di guerre ai nostri giorni: qualcuno richiama sentimenti antichi di imperialismo proponendo il ripristino di simboli imperiali come gli strumenti e i criteri di misurazione, come accade nel Regno Unito, altri evocano purezza religiosa o sentimenti quasi primordiali di appartenenza a un popolo, a un territorio delimitato misticamente da confini che ne determinano la loro natura e la loro vocazione storica.
L’uomo cristiano, l’uomo della tradizione biblica è radicalmente differente dall’uomo religiosus.
L’uomo immagine di Dio, del Dio Creatore ma immerso nella storia, l’Emanuele, “Dio con noi”, è vivificato dallo Spirito, da un fremito di vento quale è la Ruah; è l’uomo “autoexusios”, l’uomo chiamato a costruire la storia con la forza della mitezza, l’uomo dotato di potere per costruire la storia, l’uomo delle scoperte e delle invenzioni e insieme l’uomo delle sconfitte e delle fragilità, è costitutivamente potente fino al punto di poter dominare se stesso. L’uomo spirituale è l’uomo del dominio di sé, è l’uomo che ha la libertà e la possibilità di scegliere di fare il bene e di scegliere di fare il male, di collocarsi in sintonia con Dio o di spezzare questa relazione. Il Dio dei cristiani non è il Dio totalizzante e immobile dei filosofi, ma è il Dio che vive accanto all’uomo e si fa compagno del suo cammino senza costrizioni necessarie proprie del Dio immobile e totalizzante. L’uomo cristiano, l’uomo della tradizione biblica, così come l’uomo dell’età del mito o dell’età della scienza non è, e non può essere, indipendente dal suo Dio. L’uomo spirituale, tuttavia, ha un rapporto con Dio che lo rende persona, libero e responsabile, forte e debole, l’uomo religiosus cerca di trovare in se stesso la forza di andare oltre, ragionando per “mito”, affidandosi a forze, per così dire, magiche. L’uomo religiosus ambisce ad andare oltre il dato per rimanere nella storia, l’uomo spirituale è immerso nella storia e la costruisce dal di dentro.
Nelle esperienze di grande fragilità, come in quelle della guerra, ci si confronta con il male, con la radicalità del male che è la negazione della vita; in una guerra la vita rischia di non avere alcun valore e se la vita non ha valore l’uomo perde ogni senso di sé. Nella fragilità grave, in cui sembra che si colga l’impossibilità della propria scelta, in cui l’uomo si avverte come in catene, il male sembra prevalere in modo totale sulla possibilità dell’esistere. Esistere, infatti, significa avere la possibilità di sporgersi, di promuoversi, di camminare nella storia e di costruire la realtà. Nella guerra, come nella fragilità gravissima, si coglie un senso di annientamento, di nichilismo e, perciò, della negazione della vita. L’uomo spirituale, libero e forte, “domina” anche la guerra, anche la gravissima disabilità, anche la morte. Sperimenta l’inquietudine esistenziale, spirituale, filosofica e teologica, ma non rimane senza prospettiva, senza futuro; aprirsi al futuro e a ogni piccola briciola di vita è il senso dell’essere umano immerso nella storia.
In questi giorni, molto spesso, viene evocata una espressione attribuita a Bonhooeffer che, in realtà, non si trova nei suoi scritti ma sembra appartenere alla tradizione orale: di fronte a un pazzo al volante che si lancia su una folla, il cristiano non può limitarsi a pregare o a consolare, ma deve farsi parte attiva per bloccare, o eliminare anche, questo folle. Il senso più vero di questa posizione di Bonhoeffer è riconducibile all’esercizio della responsabilità e della scelta dell’uomo, pur inquieto, pur nella grave fragilità, pur in guerra.
Sant’Agostino, che ha affrontato la questione del male definendolo “privazione del bene”, per cui il male non esiste come sostanza, come realtà indipendente al di fuori e al di sopra dell’uomo, sembra avvalorare questa interpretazione ritenendo che il male sia una perversione della volontà e, perciò, anche per sant’Agostino una conseguenza della scelta libera dell’uomo. Egli propone, infatti, una triplice qualificazione del male: metafisico, per così dire di natura, appartiene all’imperfezione delle cose che in sé e per sostanza sono buone, fisico, che segna l’uomo come creatura e conseguenza del peccato originale e, infine, morale, come perversione della volontà, per cui l’uomo si orienta a un bene diverso da un Bene Sommo; nelle prime due il male è una imperfezione, una incompiutezza del bene, mentre nella terza è conseguenza di una libera scelta.
Per Bonhoeffer e sant’Agostino l’uomo è chiamato alla scelta e all’azione; di fronte al male e nel male non si può essere indifferenti; di fronte alla guerra e alla grave disabilità siamo chiamati a scegliere. L’uomo, nella sua libertà, è chiamato all’“obbedienza”, che significa ascoltare la realtà nella sua pienezza, e perciò in primo luogo il Creatore e poi il Creato, e alla responsabilità, che significa impegno e traduzione in azioni concrete della libertà. Chi sceglie la vita sceglie per il bene, chi sceglie la morte sceglie per il male, per cui si è costruttori di pace se si è promotori e difensori della vita in modo attivo senza cedere alla tentazione della inattività o, addirittura, della indifferenza.
LA PAROLA E LA VITA
Fragilità e responsabilità nel mondo
di don Alfonso Giorgio
Un bambino che percorreva la lunga ed insidiosa strada della vita, fu assalito da terribili ed oscuri mali che lo lasciarono privo di sensi, inerme e solo ai margini della solitaria strada; passò di lì un neuropsichiatra e sentenziò: “cerebropatia grave”, scosse il capo e proseguì; passò uno psicologo, guardò il bimbo e sentenziò: “irrecuperabile”, e andò oltre. Infine passò un educatore, sentì il pianto del bimbo, se lo caricò in braccio e con lui proseguì la deserta strada”
(Trattoda E. CEPPI, M. E.CEPPI, R. CHIARELLI, A. PASSARO, Il bambino non vedente pluriminorato, Edizioni Borla 1992)
Questo racconto, che parafrasa la parabola del Buon Samaritano, vuole mettere in luce le differenti modalità di approccio alla disabilità. Il medico non può che stendere una diagnosi soffermandosi sugli aspetti dolorosi e la parte lesa della persona. Suo compito, effettivamente, è cercare una cura e, se questo non è possibile, non può che rimanerne deluso. Non potendo offrire risposte significative ai genitori, si limita a scrivere la diagnosi e consegnarla loro che, di fronte a quelle difficili parole tecniche e complesse, spesso non sanno che fare. Lo psicologo, ugualmente, non riesce ad andare oltre quello che vede e, con un senso di frustrazione, a volte, è costretto a declinare. Così anche il riabilitatore, si limita agli aspetti specifici che riguardano il settore specifico del corpo interessato al recupero delle funzionalità.
Accade molto spesso che la persona con disabilità venga presa in considerazione a prescindere dal proprio contesto di vita e dal suo ambiente privato famigliare. Un approccio giusto è quello dell’educatore o comunque di chi riesce ad andare al di là dei danni visibili e si concentra invece sulle potenzialità, sulle funzioni residue, valorizzandole e cercando di stimolarle e potenziarle al massimo.
Indubbiamente il futuro della famiglia, e di coloro che vivono una condizione di disabilità in un contesto famigliare o comunitario, sta proprio in questo approccio umano e cristiano in senso pieno, che prevede un’accoglienza a trecentosessanta gradi della persona fragile, con il preponderante desiderio di affiancarla e lottare perché possa raggiungere livelli altissimi di serenità e di benessere complessivo.
Quello che occorre, in definitiva, è l’amore. È necessario un approccio diverso, quello che oggi viene chiamato approccio “bio-psico-sociale” (Cfr. Engels, 1977; Scwartz, 1982). Si tratta di un approccio sistemico, che ritiene ci sia una fondamentale interdipendenza tra tutti i fenomeni fisici, biologici, psicologici, sociali e culturali. Si parte cioè da una prospettiva diversa, tutta volta alla promozione della salute e alla prevenzione, anche se, in questo caso, non si può parlare di prevenzione primaria. Una sorta di “presa in carico” della famiglia con persone con disabilità che viene oggi realizzata dando attenzione all’integrazione tra le diverse professioni (medico, psicologo, assistente sociale, educatore, ecc.), allo scopo di consolidare le strategie di coping, di favorire l’integrazione con la rete sociale e la crescita di una progettualità che sia più ampia possibile e che guardi anche al futuro, cioè quello che viene chiamato il “progetto di vita”.
In quest’ottica si punta alla buona qualità di vita, definita dall’OMS come “la percezione soggettiva da parte dell’individuo della sua vita, del bambino con disabilità e a quella dei membri che compongono la sua famiglia, dal momento che anch’essi sono responsabili in prima persona, del benessere del bambino”.
Occorre comunque precisare che non basta approcciarsi alle persone semplicemente da tecnici competenti, occorre andare oltre. In questo senso la Chiesa potrà fare sempre di più, perché è esperta in umanità e non può che diffondere sempre e ovunque l’amore di Dio per tutte le creature.
Come Chiesa, comunità dei credenti, non dobbiamo porci in atteggiamento di superiorità, cioè dalla parte di “chi deve curare” distinti dai “curati”, ma piuttosto con l’atteggiamento di chi riconosce il proprio limite, il proprio stato ontologico di fragilità. La fragilità caratterizza il cammino di vita di ogni persona e di ogni realtà umana. La fragilità sta al cuore del mondo. Non si può iniziare una relazione ponendosi su un piano diverso. Gesù ha toccato le anime immedesimandosi in esse. Quando si avvicinò alla Samaritana le chiese da bere. Perché aveva bisogno di lei. Forse, se avesse cominciato a farle una predica se ne sarebbe andata via.
“Ho bisogno di te” questo dovrebbe essere l’atteggiamento della Chiesa e di ogni comunità o persona che voglia relazionarsi con un’altra persona e ancor più con persone particolarmente vulnerabili. Non è il superman a guarire ma colui che sa di avere un cuore ferito, ne è consapevole e sa stare di fronte ad altri cuori feriti. Ecco, allora, che ogni persona credente, in qualunque situazione si trovi, può essere “inviata” nel mondo ad annunciare la consolazione dello Spirito e la gioia del Vangelo. La fragilità, dai più considerata limitante e dannosa, va riscoperta nella sua profondità e anche nella sua forza.
Un bambino con spettro autistico di recente mi ha stupito, quando nell’atto di presentarmi a lui con le mani e le braccia aperte mi ha abbracciato. Da lì ho capito che dovremmo mettere le nostre mani nelle mani dell’altro, questo messaggio è più forte di ogni predica e di ogni teoria. Tutti possono evangelizzare perché tutti possono amare, tutti possono abbracciare, tutti possono consolare ed essere consolati.
Siamo tutti fragili e talvolta questa fragilità può renderci vulnerabili. Lo sperimentiamo su di noi umani ad ogni livello. Ciononostante non possiamo non ammettere di essere nati per fronteggiare la vita ma anche per aiutarla, per portare amore e pace nei cuori; siamo fatti per esserci e per donare, nessuno escluso. È una sfida per tutti e particolarmente per i più fragili perché è proprio da loro che può ripartire il senso più vero della grandezza dell’uomo nella storia e nella creazione, oltre che la grandezza di Dio che è vicino a tutti, particolarmente a chi soffre di più.